The Joshua Tree

Il 9 Marzo del 1987 è una data fondamentale per chi, come noi, ama in primis la musica, successivamente la sua declinazione forse più influente sui nostri animi tormentati, cioè la New Wave e tutto ciò che la circonda.
In quel preciso giorno di quel preciso anno, così catartico per evidenze politiche ben più rilevanti – si veda il monumentale discorso di Ronald Reagan “Tear down this Wall” – uscì infatti nei negozi di dischi (oggi rarissimo animale a rischio estinzione) The Joshua Tree degli U2 .
Un capolavoro, e fin qui siamo tutti concordi. Una pietra miliare nella cronistoria artistica umana, e anche in questo caso il parere è unanime.
Ma ciò che più deve far riflettere è il cambiamento che ha portato nella musica e, più in senso lato, nella comunicazione tutta, la comparsa di tale album.
Nell’eccellente ed esaustiva serie documentaristica “Video Killed The Radio Star” realizzata da Robert Elms e David Mallet, l’episodio 20 percorre la videoclip history proprio degli U2 e sottolinea in maniera chiara e decisa quanto sia stato fondamentale l’apporto multimediale nella carriera della band irlandese.
Ebbene, tutto ha avuto proprio inizio con The Joshua Tree.
Dedicato a Greg Carrol – manager della band prematuramente scomparso – nello specifico con la struggente canzone One Tree Hill, il disco, come spiega lo stesso Bono, è la messa in discussione della “mitologia americana” in toto. Dalla cristianità di cui è permeato fino agli usi e costumi più radicati dell’occidente, The Joshua Tree rappresenta un viaggio sia geografico che introspettivo, alla ricerca delle origini di una contemporaneità che ha il dovere di chiedersi cosa significhi il fatto di essere trainati dalla cultura sociale e morale degli Stati Uniti.
E se musicalmente si percepisce chiaramente un’immensa ricerca nell’ambito del folk irlandese e nella sua evoluzione – la vicinanza con gli Waterboys e altre band rappresentative della nazione del trifoglio – dal punto di vista, appunto, multimediale, si crea una massificazione comunicativa necessaria alla comprensione dello Zeitgeist, lo spirito dei tempi, da districare nel suo logico stato confusionale in un momento storico come quello della fine degli anni Ottanta del Novecento, in cui il bipolarismo mondiale era al crepuscolo e la globalizzazione si trovava ad un passo dall’alba. Figura cruciale della crossmedialità degli U2 è certamente Anton Corbjin, il genio visuale per eccellenza, che ha trasmutato la band in immagini attraverso videoclip straordinari e set fotografici impressionanti; parte integrante del gruppo, andando oltre la musica, per un’opera finale che si possa sentire, vedere, quasi toccare.
La delicata fragilità di un periodo si ascolta in ogni nota che esce dalle più rappresentative composizioni di The Joshua Tree: Where the streets have no name ci racconta quanto siamo minuscoli e sperduti su questo pianeta che sta vivendo stravolgimenti eccezionali mentre I still haven’t found (what I’m looking for) scava più a fondo, nel misterioso universo della fede, e ci fa comprendere appieno quanto sia stratificata a livello interiore la nostra ricerca, quanto sia lontano il punto di arrivo del nostro viaggio.
«La bellezza selvaggia, la ricchezza culturale, il vuoto spirituale e la feroce violenza dell’America vengono esplorati per ottenere degli effetti di fatto in ogni aspetto di The Joshua Tree; già nel titolo e nelle immagini sulla copertina dell’album, il blues e il country si mescolano chiaramente nella musica… Infatti, Bono dice che “smantellare la mitologia dell’America” rappresenta una parte importante dell’obiettivo artistico di The Joshua Tree.» Così scriveva il Rolling Stone nella recensione dell’album e ciò risulta illuminante per mantenere alta l’attenzione sulla bivalenza di questa opera.
Se da un lato infatti il viaggio inizia con la musica irish e approda nel Nuovo Mondo attraverso l’influenza del blues, del soul e del country, che si amalgamano alla perfezione negli abilissimi e sinuosi arrangiamenti della band, è l’immagine di un’America tutta da sfatare, da mettere in discussione, da comprendere mediante la spiritualità che porta il disco su di un altro livello, complesso ed emblematico, rappresentato dall’iconica figura in copertina proprio dell’albero
yucca brevifolia , la pianta di Giosuè, simbolo dell’omonimo parco sito in California.
Un disco di rottura in senso lato, tanto travolgente e fondamentale per gli U2 da fargli annullare il tour mondiale del 1986; verrebbe da pensare che fosse urgente .
Una necessità preponderante sorta in Bono dopo aver assistito al dolore profondo che permeava la base contadina di nazioni come il Nicaragua e El Salvador; Paesi appena usciti da feroci dittature ma che ancora versavano in drammatiche situazioni di indigenza e sudditanza nei confronti proprio di quell’occidente a guida americana che, attraverso multinazionali aggressive ed incoscienti, proseguiva in una lacerante vessazione di tali terre.
Ascoltando Bullet the Blue Sky e Mothers of the Disappeared ben si comprende come un artista possa trasformare in note tale sofferenza, in un perfetto equilibrio di testimonianza e ricerca spirituale di una qualche ragione per cui alcuni cammini siano drasticamente più faticosi di altri.
Ma la denuncia politica non è mai strumentale o fine a se stessa; The Joshua Tree non è affatto un disco politico . Piuttosto si tratta di un disco profondamente religioso, denso di quella fede umanistica e illuminata, verrebbe da dire Cartesiana – per smuovere i giganti – in cui Dio è natura e quindi Dio è anche, in definitva, uomo.
Ogni canzone un viaggio; un brivido lungo la schiena che percorre ogni secondo della nostra vita; un fondamentale tassello per chi non ha ancora trovato quello che sta cercando…

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