Il primo Festival non si scorda mai

Che ci piaccia o meno, in Italia, la congiunzione (semi)perfetta tra televisione e musica è ancor’oggi Sanremo.
Il Festival della Canzone Italiana, abusato nelle sue migliaia di contraddizioni e polemiche intestine e peregrine, giunge oggi alla sua settantesima edizione e in questo giorno, il 29 Gennaio, fu inaugurato per la prima volta, alle ore 22:00, presso la sala grande del Casinò di Sanremo, per la presentazione dello storico volto della Golden Age Nunzio Filogamo. Vinse Nilla Pizzi, neanche a dirlo con la canzone “Grazie dei fiori” e per la prima volta entrarono nelle case degli italiani le fragranze ed i colori delle ben presto mitiche iridescenze floreali sanremesi. Soltanto descritte, la televisione sia ben chiaro non c’era ancora, ma già dagli altoparlanti delle radio, che risuonavano in quel gran freddo dei giorni della merla, dietro le finestre delle case di milioni di “paisà” che cercavano ancora disperatamente un sorriso, primi spiragli di luce dopo la guerra, ecco giungere le note di quella “canzone italiana” che sarà per sempre simbolo di una popolarità decorosa, pulita e aggraziata, pur se banale e di scarso contenuto, sebbene sempliciotta ma davvero mai scomposta.
Piaceva a tutti, perfino ad artisti di altissimo livello come Tenco, che è diventato il simbolo di coloro che non vincono ma portano la canzone migliore; d’altronde è sempre stato così, era bello così.
Oggi invece non piace più a nessuno. Così almeno senti dire per le strade, poi distrattamente viene sempre lasciato acceso, quasi fosse un caminetto, uno sfondo del desktop, una radiolina con le notizie in sottofondo la mattina presto mentre esce il caffè.
Perché nelle case degli italiani è una questione di costume, l’albero di Natale e il crocefisso nella casa di chi in Dio non ci crede più da un pezzo e nelle festività ancora meno. L’importante, si direbbe, è che ci sia. Che faccia sempre polemica; che faccia discutere; che faccia schifo ai giovani che ascoltano la trap che ora è tutta là, a Sanremo, manco fosse il sottopasso di una stazione della metro di Atlanta.
E poi gli indignati, il popolo dei boomer, che con i loro genitori fortunatamente ancora vivi, dissertano su Facebook, il social network degli attempati e delle pizzerie, con il senno di un Buongiornissimo pieno di livore per la mancanza di artisti di rilievo o per una loro presenza bistrattata. “Tutti contro la Pavone” oppure “tutti contro Junior Cally”: fazioni diverse, generazioni diverse, lontane anni luce da Nilla Pizzi e da chi, eventualmente, la ricorda. Immancabili i professionisti, gli appassionati, gli storici e i conoscitori maniacali, che perlomeno ci deliziano con qualche pubblicazione d’obbligo qualche settimana prima, rendendo grazie ai volti altrimenti dimenticati che hanno fatto grande lo spettacolo, la televisione, l’arte della musica leggera. Bartoletti che annualmente ci racconta siparietti e curiosità tra Mogol, Celentano, Bongiorno e Claudio Villa; pochi che riportano alla luce la gloria e la classe del Maestro Seracini, che ha raccontato il secondo dopoguerra in musica come nessun altro forse al mondo, e che nessuno oggi sa chi sia questo autore straordinario (Vuemme vi consiglia di studiarlo, apprezzarlo, magari capirlo). E poi la Zanicchi, contesa tra chi la vuole leggenda plurivincitrice di festival oggi irripetibili e chi la usa meschinamente per l’ennesima provocazione cafonal, tra politica da bar e urla alla Barbara D’Urso, che insieme a Maria de Filippi, dalle terre berlusconiane, gli antipodi della “vecchia” Sanremo, oggi sono conquistatrici e dominatrici di un palinsesto a cui pure il Festival si deve piegare.
Schiere di “Amici” e di “possessori di fattore X” che si susseguono sul palco, alternandosi a dei buffoni che scimmiottano i ben più capaci colleghi americani, come fosse ancora trent’anni fa, quando invece sul palco dell’Ariston ci provavano con miseri risultati a fare del rock, una specie di rock, una sorta di rock nostrano che proprio non piaceva a nessuno.
Gli unici? La PFM, che erano talmente bravi da proporre e scrivere brani rock come fosse musica leggera. Allora sì che si parlava di talento.
E i grandi assenti, i disertori, le minacciose nubi all’orizzonte. Chi non ci ha mai messo piede per una filosofia propria, la coerenza, che oggi latita terribilmente e chi non c’è mai stato e finge di non volerci andare ma dentro rosica e soffre e si contorce le budella perché no, nemmeno quest’anno tocca a lui.
Ma in fondo, chi vince Sanremo, dice la nostra urban legend preferita, finisce nel dimenticatoio.
Chi se li ricorda i Jalisse?

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